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Comunità disgregate. Intervista a Michael Sandel - Scritto da Vittorio Pelligra

αναρτήθηκε από : tinakanoumegk on : Σάββατο 22 Νοεμβρίου 2025 0 comments

 18 Novembre 2025 -  



- Michael Sandel è uno dei filosofi politici più influenti del nostro tempo, voce pubblica capace di portare la filosofia nelle piazze e nei parlamenti. A lui è stato assegnato il Berggruen Prize for Philosophy & Culture del 2025, un riconoscimento che è andato nel passato a pensatori le cui idee hanno plasmato l’autocomprensione umana in un mondo in rapido mutamento.

La motivazione del premio richiama il cuore della sua opera: giustizia, etica, mercati e democrazia; la critica alla meritocrazia che alimenta arroganza e umiliazione; il richiamo a una cittadinanza nutrita di dignità, pluralismo e ricerca del bene comune. «Il lavoro del professor Sandel ha lasciato un segno profondo nel panorama intellettuale globale», ha dichiarato il presidente della giuria Yuk Hui. L’annuncio è stato dato dal Berggruen Institute il 14 ottobre 2025; la cerimonia si terrà nella primavera 2026 a Cambridge, Massachusetts.

In occasione dell’assegnazione del premio, Vittorio Pelligra ha avuto una lunga conversazione con Michael Sandel sui temi principali del suo lavoro.


Il suo primo importante libro del 1982, Il liberalismo e i limiti della giustizia, presenta una critica radicale alla teoria della giustizia di John Rawls che mette al centro della sua costruzione teorica un’idea di soggetto razionale, indipendente e autonomo, un sé che lei definisce “unencumbered”, cioè privo di legami comunitari, senza una storia, senza radici morali. Rileggendo oggi il libro, mi chiedo se la crisi politica che stiamo affrontando – dal populismo crescente alla polarizzazione culturale – non possa essere compresa più a fondo proprio con riferimento a questo conflitto tra un’idea di cittadinanza individualistica e priva di legami e un sé invece inserito e in qualche modo definito dalla comunità in cui si identifica.

Michael Sandel: Credo che lei abbia ragione nel suggerire che esista un legame tra una certa versione del liberalismo – quella che concepisce le persone come individui alieni dai propri legami, dalla propria storia, dalle tradizioni, dalle appartenenze, dalla comunità – e la crisi politica che affrontiamo oggi, per il seguente motivo. Siamo esseri che aspirano a esprimere il proprio senso di appartenenza, di comunità, di solidarietà. Una parte della frustrazione politica che vediamo prevalere oggi nasce proprio dal fatto che le persone percepiscono che il tessuto morale della comunità – dalla famiglia al vicinato, fino alla nazione – si sta disgregando. Le persone desiderano poter sperimentare un senso di appartenenza, desiderano sentirsi connesse, trovare modi per esprimere la loro storia e le loro tradizioni comuni. E se la politica non riesce a creare le condizioni perché tale aspirazione possa realizzarsi – o peggio, cerca di sostituirla con una concezione puramente tecnocratica, o basata sul mercato, o consumistica dell’esistenza, di un essere umano ridotto a semplice consumatore, piuttosto che cittadino legato a un luogo e a un passato – allora prima o poi questo produrrà una reazione. Una reazione che, come temevo allora, può assumere forme molto problematiche. Già a metà degli anni Novanta, in un libro successivo, La democrazia stanca esprimevo la preoccupazione che, se non fossimo riusciti a dare espressione pubblica alle identità condivise e a una forma pluralistica e sana di ciò che abbiamo in comune, quel vuoto morale sarebbe stato riempito da affermazioni dure e intolleranti di appartenenza.

 

La politica del risentimento.

Michael Sandel: Esatto. La politica del “noi contro loro”, comprese le sue espressioni più oscure: xenofobia, sentimenti anti-immigrati e a volte razzisti, che vengono sfruttati da alcune figure populiste di destra, incluso Donald Trump. Questo è ciò che accade quando la politica pluralista fallisce, quando non riconosce e non afferma il nostro bisogno di comunità. Negli ultimi anni abbiamo visto che il patriottismo è stato guardato con sospetto dai progressisti. È un errore, comprensibile, certo, perché troppo spesso il patriottismo viene associato a politiche xenofobe o razziste. Ma non deve essere per forza così. Credo che chi si preoccupa del populismo di destra debba saper articolare una concezione alternativa di appartenenza, comunità, cittadinanza e patriottismo, in modo da offrire un’alternativa pluralista e sana rispetto alle versioni oscure ed escludenti di patriottismo che vediamo nel movimento MAGA e in movimenti simili in Europa. Ne parlavo esplicitamente già in La democrazia stanca a metà degli anni Novanta, quando in Occidente dominava un certo trionfalismo: “la Guerra Fredda è finita, il Muro di Berlino è caduto, il capitalismo liberale è l’unico sistema rimasto in piedi”. C’era una sorta di arroganza trionfalistica.

 

Credevamo fosse arrivata “la fine della storia”, per usare l’espressione di Francis Fukuyama.

Michael Sandel: In realtà già allora si iniziava a vedere come sempre più persone sentivano che la loro voce non contava, che non avevano un ruolo significativo rispetto al modo in cui erano governate. Collegavo questa situazione all’immagine del sé “non vincolato” (unencumbered), ad un’idea consumistica della libertà opposta ad un’idea di libertà intesa come capacità di partecipare, insieme ai concittadini, all’autogoverno, e temevo che, se non avessimo affrontato questo problema, ci sarebbe stato un regresso verso politiche escludenti.

 

Mi pare che un altro terribile risultato di questa sottovalutazione dell’aspirazione umana alla partecipazione e alla rilevanza sia l’epidemia di “morti per disperazione”, come le definiscono Angus Deaton e Anne Case. E la diagnosi che loro propongono è molto simile alla tua: la rottura del senso di appartenenza a una comunità, la disgregazione delle famiglie, la scomparsa della rete di sicurezza che la comunità può fornire nei momenti difficili, la perdita di significato della propria esistenza.

Michael Sandel: Aggiungerei che nel loro libro, che ritengo molto importante, Deaton e Case attribuiscono la disperazione a tutte le cose appena menzionate, tra cui la perdita della comunità, il senso di dislocazione, ma anche alla perdita della dignità, il senso di umiliazione che deriva dal fatto che le élite guardano le persone dall’alto in basso. Citano anche il mio libro La tirannia del merito, che approfondisce proprio il ruolo di una politica di umiliazione che deriva dalla netta divisione tra vincitori e vinti.

 

La perdita di quel senso della vita che deriva dal sentirsi parte di qualcosa di più grande ha generato una vera e propria epidemia di morti legate all’abuso di farmaci, all’alcol e ai suicidi. Un fenomeno che è legato anche al fatto che il capitalismo contemporaneo, non è in grado di fornire lavori significativi per tutti, il che penso sia un problema enorme. «Una terribile ferita psichica», la definiva David Graeber. Ho appena finito un libro su questo tema, intitolato: L’economia del significato.

Michael Sandel: Mi piace anche solo il titolo.

 

Credo che l’idea di cittadinanza di cui lei parla, fondata su di un “sé situato”, ricco di legami e senso di appartenenza, possa essere utilizzata proficuamente per leggere alcune dinamiche delle nostre società multiculturali. L’appartenenza a una comunità, infatti, si fonda su una serie di valori condivisi. Ma spesso questi valori sono molto diversi da una comunità all’altra. E quando le diverse comunità si incontrano nell’arena pubblica, a volte questi valori – ricordano la lezione di Isaiah Berlin – appaiono come incommensurabili. Ci possono essere valori e modi di vita che sono buoni in sé, ma che non riescono a dialogare tra loro. Non che siano incompatibili, sono semplicemente non confrontabili, né classificabili. In questi casi può essere molto difficile aprire un dialogo.

Michael Sandel: Un dibattito pubblico sano e pluralistico non pretende che i cittadini rinuncino alle loro convinzioni morali e spirituali quando entrano nella sfera pubblica. È un modo strano quello di fondare una società tollerante, su un discorso pubblico neutrale rispetto alle concezioni contrastanti di vita buona e delle virtù.

 

Questa è la posizione di John Rawls e del suo “principio di civiltà” secondo cui in una società liberale la sfera dei valori privati e quella dei valori pubblici devono rimanere separate.

Michael Sandel: Esatto. Io la rifiuto e penso che negli ultimi decenni abbiamo visto che quella versione del liberalismo ha fallito. Quindi, penso che abbiamo bisogno di un dibattito pubblico più ampio, che accolga le persone affinché portino con sé nella sfera pubblica e nel dibattito democratico le loro credenze, le loro diverse concezioni di cos’è una vita buona. Ora, è difficile prevedere se un dato dibattito sui valori porterà a un accordo o se, almeno per un certo periodo, raggiungerà un punto morto. Non c’è mai alcuna garanzia. È su questo punto che non sono d’accordo con Isaiah Berlin e forse anche con John Rawls, nella misura in cui egli afferma che non dovremmo basare la giustizia e i diritti su una particolare concezione del bene. Non possiamo sapere se saremo in grado di raggiungere un accordo su una particolare concezione del bene che potrebbe essere in gioco in un determinato dibattito finché non ci proviamo. Quindi, anche se può essere vero, come hanno sostenuto Isaiah Berlin e altri, che esiste un’incommensurabilità ultima dei valori, ciò non significa che il dibattito politico sui conflitti relativi ai valori sia impossibile.

Non possiamo sapere in anticipo se stiamo entrando in buona fede in un dialogo di questo tipo. È impossibile prevedere quale sarà il risultato. In un dialogo autentico, a volte riesco a persuadere il mio interlocutore. Altre volte mi ritrovo ad essere persuaso. Queste sono due possibilità che devono essere sempre presenti in qualsiasi dialogo autentico, il che non garantisce che si raggiunga un accordo. Il motivo per cui è importante trovare la strada verso un tipo di discorso pubblico moralmente più solido rispetto a quello a cui siamo abituati non è necessariamente il raggiungimento di un accordo. Il motivo per cui è importante è che una democrazia sana richiede che ci confrontiamo gli uni con gli altri al di là delle nostre differenze e dei nostri disaccordi. Perché anche se non raggiungiamo un accordo su una questione particolare, avremo comunque imparato qualcosa gli uni dagli altri.

Una delle cose che più mancano nella nostra vita pubblica è l’arte di ascoltare. E ascoltare con attenzione e accoglienza le convinzioni morali che stanno dietro alle diverse opinioni che le persone hanno. La capacità di ascoltare è una virtù civica. Non siamo nati con questa virtù. Deve essere coltivata. E quando ascoltiamo in questo modo, poi, ogni tanto, riusciamo anche ad arrivare a un accordo. Altre volte il nostro disaccordo, la nostra distanza, può diventare ancora più evidente, ma c’è comunque una sorta di apprendimento reciproco e da questo apprendimento reciproco può nascere un rispetto reciproco.

 

È una posizione che mi ricorda molto l’etica del discorso di Jürgen Habermas. In un altro mio libro recente, La cura delle radici, descrivo la qualità del discorso pubblico come un bene comune, un common. E come sappiamo, i beni comuni tendono ad essere sfruttati eccessivamente. Per farsi sentire si alza la voce, si fa un titolo strillato, si innalza la conflittualità. Gli altri faranno lo stresso e allora parlare e ascoltarsi a vicenda diventerà impossibile. È la logica del comportamento autointeressato che porta alla distruzione del bene comune. Per questo dovremmo operare per proteggere attivamente la qualità del dibattito pubblico.

Michael Sandel: Sì, mi piace l’idea, sono d’accordo.

 

So che non apprezza essere definito “comunitarista”, ma nell’ambito della sua riflessione l’idea di comunità, di appartenenza e di identità hanno avuto un ruolo molto importante. I critici della posizione comunitarista sottolineano il fatto che la comunità può essere allo stesso tempo la culla dove cresciamo e maturiamo come esseri umani, ma può anche essere un luogo di esclusione e intolleranza e può rappresentare un ostacolo al dialogo con gli altri. Come trovare il giusto equilibrio tra l’esigenza di un’identità e un’appartenenza ben definite e la capacità di essere aperti al dialogo con chi ha visioni del mondo differenti?

Michael Sandel: Il modo migliore per essere aperti, il modo più vero e completo per essere aperti, non è quello di essere vuoti, distaccati da qualsiasi convinzione personale. Al contrario, per essere veramente aperti alla comprensione delle opinioni morali o delle convinzioni spirituali degli altri, occorre sapere cosa significa vivere una vita ricca di convinzioni morali o spirituali. Perché solo allora il dialogo può assumere la forma di un riconoscimento reciproco che, come abbiamo detto prima, non necessariamente produrrà un accordo, ma è prima di tutto un modo di essere. Se pensiamo, ad esempio, al dialogo interculturale o ai vari tentativi delle comunità religiose di raggiungere una comprensione comune, il tipo di apertura che più si presta alla comprensione reciproca è quella che potremmo definire una “apertura radicata” o “situata”. È il tipo di apertura che deriva dal sapere cosa significa vivere una tradizione e avere convinzioni morali e valori che possono essere legati a quella tradizione. Una persona puramente distaccata che dice: “Voglio conoscere la tua tradizione o il tuo modo di essere o le tue convinzioni morali e sono aperto perché non ne ho di mie” rappresenterebbe un punto di partenza molto poco plausibile per un dialogo. È vero, ed è questo che preoccupa i critici del comunitarismo, che a volte possiamo essere così radicati nelle nostre tradizioni e nelle nostre prospettive da non lasciare spazio alla riflessione critica o ad interpretazioni contrastanti. Non c’è sufficiente spazio ermeneutico dove possa avvenire l’incontro. È una preoccupazione legittima. E ci sono alcune tradizioni così chiuse e radicate che mancano di quella curiosità che idealmente spinge i portatori di una tradizione a confrontarsi con altre tradizioni.

Se pensiamo alle comunità religiose che cercano di capirsi meglio a vicenda, il modo migliore per farlo non è insistere affinché le persone prendano le distanze dalle proprie credenze, ma piuttosto sedersi insieme e leggere i testi delle rispettive tradizioni. Leggerli insieme, cercare di interpretarli insieme e discuterne. Ho scoperto che questo può essere un modo entusiasmante per esplorare le somiglianze e le differenze delle tradizioni morali, spirituali e religiose. Ma l’apertura deriva dall’essere situati, non dall’allontanarsi e dall’essere distaccati dalle proprie radici. Ritiene che abbia senso?

 

Sì, certamente, un “dialogo della vita” prima ancora che delle idee. E pensa che queste due prospettive – il sé distaccato e il sé incarnato – abbiano dei corrispettivi politici nelle ideologie dei partiti progressisti e conservatori? Intendo una sinistra che ha rinunciato alle idee di comunità, solidarietà, tradizione, ecc… lasciandone il monopolio alla destra. Mi riferisco in particolare al dialogo che ha recentemente avuto con Thomas Piketty sul tema dell’uguaglianza (Uguaglianza. Che cosa significa e perché è importante). Una delle critiche che lei rivolge ai partiti progressisti è che hanno rinunciato a confrontarsi con questioni importanti come la dignità, il patriottismo, la comunità, che pure appartenevano alla loro tradizione, per lasciarle totalmente alla destra conservatrice.

Michael Sandel: Sì. Penso che questo descriva la difficile situazione in cui si trova oggi la sinistra o il centro-sinistra, soprattutto all’indomani di cinque decenni di politiche economiche neoliberiste abbracciate indistintamente sia dal centro-sinistra che dal centro-destra. Quindi, anche in quel libro, ho cercato di sostenere che i progressisti devono abbandonare il neoliberismo, il liberalismo della neutralità, abbandonare il sospetto nei confronti dell’appartenenza alla comunità e del patriottismo. Certamente non intendo che debbano abbracciare la versione che ne offre la destra MAGA, ma elaborare e offrire un’alternativa pluralistica. Quindi vedo questo come un fallimento dei partiti di centro-sinistra e penso che l’unico modo per rispondere alla sfida  più che alla sfida, al pericolo – rappresentato dai movimenti populisti e autoritari di destra sia quello di ripensare la politica progressista in un modo che coinvolga e articoli il senso di comunità di appartenenza e di ciò che ci dobbiamo gli uni gli altri come concittadini. Tradizionalmente, i partiti e i movimenti di sinistra invocavano forti nozioni di solidarietà, che è un altro modo per descrivere la politica comunitaria del bene comune. È solo negli ultimi decenni, nell’ultimo mezzo secolo, che il centro-sinistra ha in gran parte abbandonato, anche se non del tutto, questa ricca tradizione. E così ho cercato di spronare la politica progressista in questa direzione, finora direi senza troppo successo. Cosa ne pensa lei?

 

Sono totalmente d’accordo su questo punto relativo alla trasformazione della piattaforma progressista. Penso che paradossalmente una delle cause della perdita di questo forte senso di solidarietà sia stata la sua istituzionalizzazione, ad esempio nel campo del Welfare State, dei diritti civili e delle conquiste sindacali. Questi successi hanno in qualche modo trasformato il nostro senso di responsabilità personale nei confronti dei nostri concittadini. Ora, sempre più spesso, deleghiamo la responsabilità della cura e del benessere di chi ci sta a fianco alle istituzioni e al mercato, e questo fatto può rappresentare un alibi morale, una moral wiggle room, che ci fa stare in pace con la coscienza nonostante il disimpegno e l’indifferenza per chi vive situazioni di svantaggio.

Michael Sandel: Se posso aggiungere una cosa a quello che ha appena detto, anche lo Stato sociale che ora viene eroso in molti Paesi, non può essere sostenuto sulla base di una politica puramente tecnocratica. È nato come un progetto morale e civico e potrà essere rafforzato e preservato solo con una nuova morale e un nuovo progetto civico. Una modalità puramente tecnocratica di spiegare l’importanza dello Stato sociale è destinata a fallire e sta già fallendo.

 

Una delle ragioni che sta alla base di questo fallimento è la diffusione della retorica meritocratica. Esistono dati che dimostrano come la convinzione nel ruolo della fortuna o nel ruolo del merito rispetto alle vicende dei singoli influenzi e orienti il finanziamento delle politiche pubbliche di welfare. Una retorica che si sta diffondendo nella maggior parte dei Paesi occidentali. E quando si sostiene l’idea che se ce l’hai fatta ce l’hai fatta perché te lo sei meritato, questo implica, simmetricamente, che se non ce l’hai fatta, se sei povero, è perché sei pigro. E se la povertà è una colpa, perché lo Stato dovrebbe intervenire con soldi pubblici per aiutarti? Queste idee facilitano l’aggregazione del consenso politico intorno a misure volte a ridimensionare il supporto pubblico, il contrasto alla povertà e l’accesso inclusivo ai servizi.

Michael Sandel: Sì. Esatto. Concordo con tutto ciò che ha appena detto. Si tratta del tema principale del mio libro, La tirannia del merito. Negli ultimi cinquant’anni la versione neoliberista della globalizzazione ha prodotto una crescente disparità di reddito e ricchezza. Ma questa non è l’unica fonte della rabbia, del risentimento e del malcontento che hanno portato alla reazione populista di destra. Perché alla crescente disuguaglianza economica, si è venuta ad affiancare una crescente disuguaglianza in termini di riconoscimento sociale, dignità, onore e rispetto, soprattutto tra chi ha un titolo di studio superiore e chi non ce l’ha. Questo divario è diventato uno dei più profondi nella nostra politica. E questo è collegato alla retorica del merito. Nello stesso periodo in cui è cresciuta la disuguaglianza di reddito e ricchezza, abbiamo assistito a un crescente divario tra vincitori e vinti. Il neoliberismo ha prodotto il divario tra ricchi e poveri. Ma la tirannia del merito ha prodotto il divario tra vincitori e vinti. Si tratta di qualcosa di più del denaro, riguarda il riconoscimento sociale e la stima.

In origine la meritocrazia era vista come un’alternativa al nepotismo, al clientelismo e alla corruzione. Ma oggi funziona al contrario. Serve per legittimare le disuguaglianze, perché fornisce una giustificazione ideologica alle crescenti disuguaglianze di reddito e ricchezza che si sono accentuate negli ultimi decenni. E questo alimenta anche la politica velenosa e la polarizzazione che vediamo oggi. Perché l’atteggiamento meritocratico nei confronti del successo porta all’arroganza di chi vince e all’umiliazione di chi perde. Porta i vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e le circostanze favorevoli che li hanno aiutati nel loro percorso, a dimenticare il loro debito verso coloro che hanno reso possibili i loro successi. E questo si ricollega al punto che stava sottolineando, riguardo all’ideologia della meritocrazia che, combinata con le disuguaglianze economiche, contribuisce all’erosione dello Stato sociale. Perché più le persone sono convinte che i vincitori meritino la loro vittoria e che chi rimane indietro meriti il proprio destino, più è difficile mobilitare il senso di solidarietà che fonda una società coesa e inclusiva.

 

La posizione di Rawls sul merito e sui rischi della meritocrazia è molto interessante perché non nega che siamo diversi. Per via della “lotteria della nascita” e della “lotteria genetica”. Non nega le differenze ma fa una riflessione più sottile. Il problema, infatti, per Rawls non è che ci siano delle differenze, il problema vero è cosa ne fanno le istituzioni di queste differenze? Come le istituzioni, come la “struttura di base”, gestiscono queste differenze a vantaggio di chi è più svantaggiato. In questo senso tale riflessione non è molto lontana dal suo richiamo alla funzione emancipatrice del lavoro.

Michael Sandel: Penso che dovremmo spostare i termini del discorso politico dal chiedersi come possiamo armare di pistole e fucili le persone a come possiamo armarle di conoscenze, idee e categorie che le mettano nelle condizioni di salire la scala del successo in un momento in cui i pioli della scala stanno diventando sempre più distanti.

 

Non è solo una questione di pari opportunità.

Michael Sandel: Giusto. Questo non vuol dire che l’uguaglianza delle opportunità non sia importante. Nessuno dovrebbe essere ostacolato dalla povertà o dal pregiudizio. Ma è importante ricordare che l’uguaglianza delle opportunità è un principio correttivo. Non è un ideale adeguato per una società giusta. Ciò di cui abbiamo bisogno per andare oltre le pari opportunità, secondo alcuni, è una sterile, coercitiva e oppressiva uguaglianza dei risultati, in cui tutti devono avere lo stesso reddito e la stessa ricchezza. Ma questa non è l’unica alternativa. Piuttosto, secondo me, l’alternativa per andare oltre le pari opportunità è cercare un’ampia “uguaglianza democratica di condizioni”. Un’idea che si fonda su due elementi: il primo, come hai detto tu, è l’enfasi sulla dignità del lavoro, sul miglioramento della vita. Mi spiego meglio. La dignità del lavoro significa che dobbiamo prestare attenzione non solo alla giustizia distributiva, che riguarda la rete di sicurezza e la garanzia dell’accesso ai beni e al soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali. Dobbiamo andare oltre la giustizia distributiva e considerare la “giustizia contributiva”. Come hai detto prima tu, la giustizia contributiva consiste nel riconoscere e premiare il valore del contributo di ciascuno all’economia e al bene comune, senza dare per scontato che il denaro guadagnato sia la vera misura del valore di tale contributo.

Abbiamo progressivamente delegato il nostro giudizio morale su ciò che conta veramente nella vita alla logica del mercato e del prezzo. Ma sappiamo che i mercati sbagliano su questo punto. Se i mercati fossero la vera misura del valore di un contributo, allora il valore sociale del lavoro di un magnate miliardario dell’azzardo sarebbe enorme. Ma davvero possiamo dire che siccome guadagna 10.000 volte di più di un insegnante, un infermiere o un medico, il suo contributo al bene comune sia maggiore di quello di chi insegna ai nostri figli o si occupa della nostra salute? La maggior parte delle persone ammetterebbe che no, il guadagno non è una misura reale del valore del contributo. Ciò significa che dobbiamo rivendicare, come cittadini, un giudizio più complesso rispetto a cosa sia davvero un contributo prezioso. Le persone avranno opinioni diverse, ma ecco un esempio di dibattito moralmente impegnato di cui abbiamo bisogno e che potrebbe rinvigorire il discorso pubblico. Come dovremmo ricompensare, ad esempio, chi lavora nel settore della cura, o le persone che educano i nostri figli? Abbiamo bisogno di un dibattito pubblico su ciò che conta come contributo prezioso.

La giustizia contributiva fa riferimento al fatto che le persone non vogliono solo un accesso equo ai beni. Le persone vogliono anche poter esercitare i propri talenti in modo da soddisfare le esigenze degli altri nella società e ottenere il riconoscimento sociale e la stima per i contributi che danno. Il bisogno umano più profondo è quello di essere necessari agli altri e di poter contribuire a soddisfare i loro bisogni, ottenendo in cambio stima e riconoscimento. Questo è il senso della giustizia contributiva. E penso che il crescente senso di esclusione e dislocazione delle persone, la rabbia e il risentimento non riguardino la disuguaglianza economica, né solo l’impossibilità di accedere a vari beni di consumo. Riguardano il fatto di essere guardati con disprezzo. Riguardano la mancanza di dignità.

Questa sarebbe una parte importante del cambiamento, una nuova politica del bene comune. L’altro passaggio necessario per favorire una vera “uguaglianza di condizioni” sarebbe quello di rafforzare le istituzioni che favoriscono la mescolanza delle classi all’interno della società civile. Perché uno degli effetti più corrosivi delle disuguaglianze degli ultimi decenni è che queste disuguaglianze ci hanno portato a vivere vite separate. Chi è benestante e chi ha mezzi modesti raramente si incontra nel corso della giornata. Mandiamo i nostri figli in scuole diverse. Viviamo, facciamo acquisti, lavoriamo e giochiamo in luoghi diversi. Ci sono sempre meno luoghi pubblici e spazi comuni che riuniscono persone di diversa estrazione sociale nel corso della loro vita quotidiana. Quindi penso che parte di una nuova politica del bene comune richiederebbe di ripensare l’infrastruttura civica della vita comune per costruire istituzioni che favoriscano la mescolanza tra le classi sociali, dagli impianti sportivi ai parchi pubblici e alle aree ricreative, dai municipi alle piscine comunali, dalle biblioteche pubbliche ai trasporti pubblici. È attraverso l’incontro, che favorisce il mescolarsi di persone provenienti da contesti sociali diversi, che impariamo a gestire e ad accettare le nostre differenze. Ed è così che arriviamo a preoccuparci del bene comune. Se non vediamo e non interagiamo con persone di classi sociali diverse, è molto difficile arrivare a preoccuparci per loro o a riconoscere ciò che ci unisce. Per questo una parte importante di una nuova politica del bene comune è il tentativo deliberato di creare luoghi pubblici e spazi comuni, istituzioni che fanno incontrare le classi sociali, che riuniscono le persone e abbattono l’isolamento.

 

Gli psicologi sociali definiscono questa idea di mescolanza a cui facevi riferimento come “ipotesi del contatto”. Quindi, entrare in contatto con persone di origine differente, classi sociali e tradizioni differenti è un buon modo per ridurre la diffidenza e promuovere la coesione e la cooperazione. Un’ultima osservazione: l’idea di giustizia contributiva è stata proposta per la prima volta dalla Conferenza Episcopale degli Stati Uniti nel 1986, in un documento intitolato Economic Justice for All. Penso che non sia un caso che questa idea, come anche lei l’ha poi sviluppata, abbia una radice evangelica. Ma l’aspetto personale, morale, non credo sia abbastanza. Affinché si possa davvero sperare in una società più giusta anche dal punto di vista “contributivo”, occorre richiedere che le istituzioni pubbliche giochino un ruolo attivo. Rivendicare più giustizia contributiva significa chiedere alle nostre istituzioni di creare le condizioni preliminari affinché ciascuno di noi possa contribuire fattivamente alla vita e al benessere delle nostre comunità. E quindi più lavoro di qualità, maggiori occasioni di socializzazione, abitazioni dignitose, un’istruzione di livello per tutti, lotta efficace alle discriminazioni e all’esclusione, solo per fare qualche esempio. Penso che questa sia una delle grandi responsabilità della politica del bene comune.

Michael Sandel: Concordo

 

Abbiamo finito.

Michael Sandel: Va bene. Mi è piaciuto molto questo dialogo.

Scritto da
Vittorio Pelligra

Professore ordinario di Politica economica all’Università di Cagliari. Insegna Politica Economica, Economia dell’Informazione ed Economia Comportamentale. È direttore del Comitato Scientifico e di Indirizzo della SEC – Scuola di Economia Civile. Scrive regolarmente su «Avvenire» e «Il Sole 24 Ore». Tra le sue numerose pubblicazioni: “La cura delle radici. Beni comuni, bene comune” (Vita e Pensiero 2023), “Ipersociali. Le radici, le forme e le trappole della vita in comune” (Ecra 2022), “Microfinanza. Dare credito alle relazioni” (con Antonio Andreoni, il Mulino 2009) e “I paradossi della fiducia. Scelte razionali e dinamiche interpersonali” (il Mulino 2007).

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