ενδείξεις - αντενδείξεις





πρός τό δεῖν οὕτω



Προηγούμενα εὕσημον λόγον δῶτε








Il paesaggio, l’arte, lo sviluppo e il senso della possibilità. Ecco il Crivu Festival Di Michele Gerace

αναρτήθηκε από : tinakanoumegk on : Δευτέρα 29 Σεπτεμβρίου 2025 0 comments

 

Il paesaggio, l’arte, lo sviluppo e il senso della possibilità. Ecco il Crivu Festival

Di Michele Gerace

Crivu è molto più di un festival culturale: è una riflessione collettiva sul significato di sviluppo nei territori considerati “periferici”. Un laboratorio vivo, dove arte, educazione e paesaggio si intrecciano per attivare trasformazioni sociali durature e consapevoli

Crivu Festival dei paesaggi straordinari e delle rive sconosciute nasce dalla volontà di attribuire alla parola “sviluppo” un referente linguistico capace di ancorarla a esperienze reali e pratiche trasformative. Un’occasione per riflettere sulle forme che lo sviluppo può assumere nei contesti percepiti come periferici, e su come possa diventare realmente generativo. Il fatto che si tenga sull’Appennino, in un borgo dell’entroterra calabrese, Orsomarso (Cs), non dovrebbe evocare né retoriche pessimiste né entusiasmi fuoriluogo. La periferia non è una condizione geografica assoluta: anche nei centri urbani si incontrano fragilità strutturali; allo stesso tempo, proprio nelle aree periferiche e interne possono emergere risorse, energie, competenze capaci di orientare il cambiamento.

Con la seconda edizione vogliamo passare dal “perché” al “quindi”: interrogarci su cosa può essere fatto, con quali strumenti, e con chi. In questo senso, il festival non è solo un momento culturale, ma un’occasione politica, nel senso più ampio del termine: generare spazi in cui persone, pensiero, musica, arte, educazione e relazioni, possano diventare fattori abilitanti di trasformazione sociale ed economica. Il paesaggio stesso non è un semplice elemento scenografico, ma una componente attiva del processo formativo e relazionale. L’esperienza, se vogliamo, l’etica e l’estetica dell’interazione fisica con l’ambiente diventano occasione per misurarsi con la dimensione concreta dello spazio, del limite e della possibilità. Per restituire senso al tempo, allo spazio, e ai legami che vi si intrecciano. Crivu Festival promosso dall’Associazione culturale “cento giovani” – nel suo cinquantesimo anniversario – grazie al sostegno di Deloitte e Fondazione Deloitte, al partenariato editoriale con Rubbettino e alla collaborazione con l’Associazione Nazionale Presidi (Anp), si interroga su che cosa significhi “sviluppo” in luoghi spesso letti solo in termini di mancanza: di risorse, infrastrutture, opportunità. La sfida è capire quanto margine esista per scegliere, orientarsi, trasformare. Il concetto di fertilità simbolica diventa centrale: la capacità di una comunità di allungare lo sguardo, stimolare linguaggi, e allenare competenze in grado di costruire futuro anche a partire da bisogni concreti e da contesti fragili.

In questo quadro, la musica, l’arte, il linguaggio e la scienza sono leve di attivazione. Come la lingua, che è infrastruttura invisibile ma potentissima: ci permette di nominare, riconoscere e modificare ciò che viviamo. È con le parole che desideriamo, progettiamo, trasformiamo, ed è qui che l’educazione gioca un ruolo decisivo. Progettare spazi di trasformazione significa anche contrastare la dispersione scolastica, non solo come abbandono della scuola, ma come disconnessione tra le persone e il senso del proprio abitare. Offrire occasioni in cui scoprire opportunità che fino a quel momento sembravano lontane, o addirittura inesistenti. Opportunità che possano diventare visibili, concrete, e alla portata di chi si impegna, personalmente e insieme alla comunità. In questo, la scuola è un presidio fondamentale, ma può trovare forza e senso nuovo quando si allea con la creatività, con il territorio, con esperienze che aprono gli occhi sul mondo. L’innovazione autentica comincia dal rinnovare i fondamentali: lo studio, il senso del lavoro, dell’impresa, della cooperazione, della responsabilità, della possibilità. Senza queste basi, ogni prospettiva di futuro resta astratta. Solo da qui può nascere uno sviluppo sostenibile, perché duraturo e condiviso. Sono questi stessi fondamentali che, anche nel rapporto con la spinta innovativa delle tecnologie emergenti ed esponenziali, ci consentono di porre le domande giuste, formulare i giusti prompt, e utilizzare gli strumenti con consapevolezza. Si tratta allora di riconoscere che ciò che è già presente – relazioni, paesaggi, saperi – può diventare il punto di partenza per darci un orizzonte nuovo e nuove opportunità.

(Foto: Franco Grimone)


Per capire l’arte oggi serve educazione, e non solo stupore. L’intervento di Monti

È essenziale che al percorso sinora svolto dall’arte contemporanea si affianchino anche altri strumenti e altre azioni, affinché le prossime generazioni, che saranno sempre più assuefatte dalle immagini e dall’immateriale, possano trovare nell’arte una produzione culturale e simbolica densa e ambigua, pregna di domande, capace di far vedere il mondo con uno sguardo differente dal proprio, in grado di innescare creatività, pensieri eversivi, idee brillanti

L’arte contemporanea può davvero aiutare il nostro sviluppo? Non sempre ciò che si vuole è effettivamente ciò di cui si ha bisogno. È interessante notare quanto questa frase fatta possa assumere un differente peso se pensiamo al rapporto la l’arte contemporanea e la società.

Riformuliamo: la nostra arte contemporanea fornisce alla nostra società ciò che questa società vuole o ciò di cui ha bisogno? Se assumiamo che l’arte contemporanea abbia tendenzialmente perso, nel tempo, quella carica trasformativa che invece ha avuto in un passato non molto lontano, allora è semplice affermare che l’arte contemporanea si è concentrata sempre più su ciò che la società mostrava di volere.

Tutto ciò è accaduto per una serie molto ampia di fattori, che vanno dalla spettacolarizzazione delle immagini alla necessità che l’arte ha maturato di sviluppare un proprio alfabeto che, per quanto sofisticato, permettesse ad una serie di persone di leggerne il linguaggio.

Da quando questo meccanismo ha smesso di creare abbastanza adepti da sostenere l’intera infrastruttura, l’arte ha dunque avviato un’estensione del proprio linguaggio, tenendo ad aprire il proprio linguaggio affinché i suoi messaggi avessero un maggior numero di riceventi.

Di fronte a tali circostanze, e quindi di fronte al fatto che così facendo l’arte stia dando alla società ciò che la società vuole, molti critici tendono ad affermare che l’arte debba nuovamente riprendere quei percorsi di ricerca che siano in grado di sviluppare un linguaggio completamente autonomo, in una logica di alfabeto estetico globale in grado di essere decifrato soltanto attraverso l’affinamento delle proprie capacità di lettura.

Tuttavia, se spettacolarizzare l’arte la indebolisce, promuoverne una visione completamente assolutistica fa altrettanto.

C’è una tecnica, in ambito di persuasione, che si chiama “piede nella porta”. Era molto in voga nel secolo scorso, nell’epoca in cui ai venditori veniva letteralmente chiusa la porta in faccia. Bene, questa tecnica consiste nel cercare di trovare una ragione per fare in modo che il potenziale destinatario non chiuda la testa di fronte ad un messaggio che si vuole provare a trasmettere.

L’arte spettacolistica degli ultimi tempi può essere interpretata in alcuni casi secondo questo tipo di meccanismo, ma troppo spesso questo meccanismo non è stato governato in vista di altri obiettivi, è stato semplicemente “subito”, e, così facendo, quello che era un meccanismo “intermediario” è divenuto un fine.

E così, l’idea che sempre più persone entrassero nei musei, che ben si poteva immaginare come uno strumento per poi spingere le persone ad interessarsi di arte, si è ridotta alla conta dei record. O, analogamente, l’idea che con un bonus di 500€ si creassero nuovi lettori, ha poi dimostrato che, togliendo quel bonus, le vendite sono calate in modo più che proporzionale.

L’idea dell’arte spettacolistica, o anche di un’arte che si omologa ad un codice interpretativo omogeneo, ha seguito più o meno lo stesso percorso: poteva essere uno spiraglio nella testa delle persone, ma ha esaurito il proprio potenziale divenendo intrattenimento.

Partendo da queste condizioni, dunque, cosa manca?

Manca una verità di fondo all’interno dell’espressione artistica. Una verità genuina. Alla base dell’arte c’è la necessità che alcune persone hanno di sviluppare una ricerca e un’espressione di tale ricerca utilizzando strumenti specifici. Se da un lato la necessità di sviluppare un dialogo porta ad utilizzare un linguaggio gremito di vocaboli ad alta ricorrenza, dall’altro però, ci deve essere anche la capacità di introdurre, all’interno del discorso, un termine che è per lo più sconosciuto ai più, senza che ciò abbia un carattere respingente.

Lemma dopo lemma, si potrà raggiungere dunque un livello di dialogo in cui chi parla può utilizzare i termini che ha in mente, e non quelli che deve usare per essere compreso. Questo si ottiene attraverso una connessione sempre più forte con i codici simbolici attuali, e con una sempre più forte integrazione con le azioni che vengono ad oggi condotte in modo prioritario.

In primo luogo attraverso la condivisione dei mattoncini che insieme costruiscono la grande cattedrale dell’arte contemporanea attuale. Se da un lato può essere utile smussare molti dei loro angoli affinché possano essere compresi da coloro che intendono i mattoncini come esclusivamente rettangolari, dall’altro è necessario formare sin da subito le nuove generazioni alle loro forme più naturali, che di “rettangolare” hanno ben poco.

Questo significa anche sviluppare linguaggi che si sviluppano in simbiosi con le evoluzioni tecnologiche. La nostra educazione visiva plasma, letteralmente, ogni ambito della nostra esperienza, anche quegli ambiti che tendenzialmente immaginiamo ben distanti da ciò che chiamiamo arte. Basti pensare che molte immagini dell’universo vengono scattate in bianco e nero e poi “colorate” da scienziati e da team grafici.

Se da un lato dunque la formazione acquisisce un ruolo essenziale nel fare in modo che le persone possano comprendere i vocaboli dell’arte, è altrettanto importante riportare l’attenzione ai contenuti che quell’arte veicola.

Contenuti che possono anche riscoprire un tessuto territoriale comune: a discapito di quanto gli sviluppi delle tecnologie di comunicazione ci portino a credere, non viviamo affatto in un mondo sempre-uguale ad ogni latitudine. Basta allontanarsi dai centri urbani per comprendere che il modo di intendere la vita, il tempo, e i grandi valori che regolano l’esistenza umana, varino in modo considerevole tra un piccolo comune greco e un piccolo comune islandese.

Linguaggio e contenuto allora possono differenziarsi, ed avere anche un sottostrato comune di conoscenza territoriale. Questo significa, detto in altri termini, che data la stretta correlazione tra linguaggio e contenuto, alcune opere potranno essere immediatamente assorbite in determinati contesti e da determinate persone piuttosto che da altre.

Significa altresì che l’arte che si concentra su una base di conoscenza comune, possa rendere il contenuto immediatamente percepito, e quindi riportare l’attenzione al linguaggio utilizzato, così da sviluppare una conoscenza dell’arte e delle sue espressioni intuitiva, ma da approfondire.

Un’arte che è viva in un territorio significa un’arte in grado di dialogare con persone molto differenti. Può sembrare assurdo, ma è molto probabile che l’opera di un piccolo artista di provincia esposta nella piazza comunale incontri una maggiore diversificazione di persone di quella che può incontrare un’opera in un’importante galleria d’arte a livello internazionale.

Sviluppando l’arte sulla base di un confronto concreto con una grande varietà di persone, si innescano ulteriori elementi che altrimenti è impossibile sviluppare: si incrementa la capacità di penetrare nella vita delle persone, e di essere sempre più diffusa tra soggetti differenti; diviene un elemento comune all’interno di un territorio ed in quanto tale identitario; diviene uno dei fattori che educano alla conoscenza del mondo; avvia, necessariamente, un dialogo con altri soggetti culturali e creativi, in una logica di reciproco scambio, e non di isolazionismo concettuale.

Oggi è difficile che un artista emergente partecipi attivamente ad una sfilata di moda. Ma se in un piccolo Paesino c’è uno stilista e c’è un artista contemporaneo, è molto probabile che questi due soggetti si influenzeranno a vicenda.

È dunque essenziale che al percorso sinora svolto dall’arte contemporanea si affianchino anche altri strumenti e altre azioni, affinché le prossime generazioni, che saranno sempre più assuefatte dalle immagini e dall’immateriale, possano trovare nell’arte una produzione culturale e simbolica densa e ambigua, pregna di domande, capace di far vedere il mondo con uno sguardo differente dal proprio, in grado di innescare creatività, pensieri eversivi, idee brillanti.

Questo può cambiare in meglio la nostra società.

Se invece vogliamo accontentarci di un’arte in grado di stupire, allora non sorprendiamoci quando sarà davvero difficile recuperare, in un’opera d’arte, quella stratificazione di contenuti e simboli che in genere è lecito attendersi dal lavoro di un artista.


Qualità della vita e città sostenibile, un sogno possibile? Risponde Monti

Una recente ricerca pubblicata dal Sole24Ore sintetizza una classifica che mostra quali città italiane riescano a fornire condizioni più o meno favorevoli per determinate categorie di cittadini. Come valutare però i dati che ci troviamo davanti? Il commento di Stefano Monti

Al centro del concetto di città c’è il sogno di una comunità. Il sogno di un gruppo di persone che, organizzandosi e sviluppando delle regole di vita civile, ambiscono e partecipano alla creazione di un luogo sicuro, in cui poter trascorrere la propria vita sereni e poter ambire a migliorare le proprie condizioni di vita.

Dalle città fortificate alla nascita dei Comuni, questi elementi sono stati da sempre la base sulla quale è stato poi sviluppato l’insieme di regole, di organi e di servizi che siamo soliti chiamare con il nome di “città”.

Questo percorso evolutivo è avvenuto nel tempo e nello spazio, e ha quindi sempre risentito delle dinamiche più ampie che si verificavano nel mondo: dalla città industriale nel periodo dell’industria a quella informatica, sino ad arrivare al sogno delle città sostenibili, in grado di garantire ai propri abitanti delle condizioni di vita favorevoli lungo l’intero percorso dell’esistenza.

Se dimentichiamo questi elementi, scoprire quale città sia più o meno adatta a determinate categorie di popolazione perde ogni forma di significato. Diventano statistiche, più o meno accurate, che non fanno altro che determinare una classifica tra le città.

Si prenda ad esempio la recente ricerca pubblicata dal Sole24Ore che sintetizza una classifica che mostra quali città italiane riescano a fornire condizioni più o meno favorevoli per determinate categorie di cittadini.

Che tipo di informazione si ottiene, ad esempio, scoprendo che la propria città non è il miglior luogo in cui invecchiare? Si lascerà la città in cui sono stati costruiti rapporti umani per trasferirsi a quella in cima alla classifica?

O al contrario, cosa accade se si scopre che la propria città è la migliore per i bambini, ma non ci si trova lavoro? Si dovrà forse rinunciare alle proprie ambizioni per poter crescere dei figli in un luogo che ha magari più asili, ma che non permette al padre e alla madre di seguire un percorso di vita che sia coerente con le proprie ambizioni?

Nell’uno o nell’altro caso, trasferirsi sarebbe davvero una scelta che migliorerebbe la qualità della vita?
Certo, è importante misurare e comparare, ma deve esser chiaro anche il fine per cui tali misurazioni avvengono.

La constatazione che a Roma ci siano meno dotazioni pro-capite per anziani di quante ce ne siano a Bolzano, Treviso o Trento è un dato comparativo che non apporta granché in termini di miglioramento generale. Soprattutto se poi si guardano soltanto indicatori che raccontano una visione piuttosto parziale della qualità della vita.

Ecco, ad esempio, quelli utilizzati per gli anziani: speranza di vita a 65 anni, geriatri, pensioni di vecchiaia, farmaci per malattie croniche, posti letto nelle RSA, pensionati, farmaci per depressione, spesa sociale per anziani, orti urbani, farmaci per obesità, servizi sociali comunali, biblioteche, infermieri non pediatrici, persone sole, inquinamento acustico.

In altri termini, la qualità della vita degli anziani in una città che emerge da questa statistica riflette una visione di vita che, quando c’è (speranza di vita a 65 anni), deve essere trascorsa, in buona sostanza, curandosi, andando in biblioteca a sfogliare il giornale, o andando in orti urbani, preferibilmente silenziosi.

Nulla sul numero di musei. Nulla sulle iniziative culturali pro-capite. Qualche investimento pubblico, sì, ma poi servizi sociali, spesa sociale e infermieri. Amen.
La qualità della vita, però, si basa su qualcosa di più che un rapporto tra utente e amministrazione. Utente e amministrazione partecipano congiuntamente a creare le migliori condizioni possibili per vivere all’interno di un dato luogo.

Se tutti i pensionati di Trapani (ultima in classifica) si riversassero nella città di Bolzano, siamo sicuri vivrebbero tutti meglio?
Per rispondere a questa domanda, può essere utile andare ad analizzare un po’ meglio che cosa si intende quando si parla di qualità della vita. Ebbene, secondo il gruppo di lavoro Quality Of Life dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, la qualità della vita è la percezione che gli individui hanno della loro posizione nella vita nel contesto della cultura e dei sistemi di valori in cui vivono e in relazione ai loro obiettivi, aspettative, standard e preoccupazioni.

Ritorna il sogno della città sostenibile. La volontà di poter essere, in altri termini, in un luogo che permetta di vivere la propria esistenza in modo costruttivo. Gli ospedali sono necessari. Lo sono le strutture residenziali e semiresidenziali. Sono necessari i medici. Gli infermieri. Così come sono necessari i netturbini, i vigili, gli ausiliari del traffico, le società di pulizie e di manutenzione del verde pubblico, la presenza di un tessuto produttivo abbastanza ampio da permettere di ambire ad un lavoro coerente con le proprie aspettative, dei centri aggregativi, pubblici e privati, in grado di consentire alle persone di conoscersi, di confrontarsi. Sono necessari i negozi di prossimità e tutto ciò che consenta di sostenere una famiglia, ma sono altrettanto necessari i luoghi deputati al benessere personale, non solo alla cura della patologia.

Questo rende tali classifiche inutili? Niente affatto; esse possono essere anzi molto utili se ci si ricorda che la città è quella cooperazione tra individui e organizzazioni volta al perseguimento di un obiettivo comune. Secondo le analisi citate Varese è in una posizione più bassa della classifica rispetto a Nuoro. Come poter rendere tale informazione una conoscenza?
Analizzando tutti gli aspetti possibili della qualità della vita, includendo anche azioni che indaghino quanto si sentano in realtà soddisfatti gli abitanti di una o dell’altra città, e poi misurando tutti i servizi privati che vengono offerti, la vicinanza con i propri cari, e via discorrendo. Una volta terminata un’indagine più estesa e accurata, si dovrà successivamente definire quali azioni compiere per migliorare e chi è il soggetto più adatto.

Se misuriamo soltanto la dimensione “pubblica”, ad esempio (orti urbani, spesa sociale per anziani, servizi sociali comunali, biblioteche), dimentichiamo che la nostra esistenza avviene, per la maggior parte del tempo, tra “privati”. Senza scomodare le gallerie d’arte, o le piste da ballo latino-americano, anche soltanto un centro burraco, in questa statistica, non è contemplato.

Ovvio, non tutto si può misurare. Ma bisogna stare attenti, perché bisogna sempre ricordare il fine delle statistiche. E tra tutti i fini che può avere una classifica del genere, quella di misurare la qualità della vita come se fosse un obbligo esclusivo che grava in capo al settore pubblico, di certo non rientra tra questi.

Sarà dunque importante comprendere i dati di queste analisi, e offrirli alle amministrazioni affinché queste possano analizzare quante più dimensioni possibile del proprio agire, integrando anche le azioni private.

Con quei dati si potrà dunque valutare in modo più corretto se una città offre o meno una adeguata qualità della vita. E sempre con quei dati, si potrà anche agire facendo ni modo che i privati, in accordo con i Comuni, possano poi partecipare al miglioramento generale delle condizioni di partenza. Se ci dimentichiamo che la città è il sogno di una comunità e non del settore pubblico, allora nessuna città sarà mai in grado di essere sostenibile. È numericamente, economicamente, concettualmente e, evidentemente, impossibile.

  ΑΠΟ https://formiche.net


Ετικέτες: